mercoledì 4 aprile 2018

Note su Benjamin

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

In questo breve articolo intendo proporre delle considerazioni sullo storicismo e sull’arte in Walter Benjamin, a partire da alcune cose che ho sentito qua e là e che, l’ispirazione è potenzialmente ovunque, hanno suscitato in me, appunto, quanto segue. 
1) Sullo storicismo in Benjamin (a partire dalle Tesi sul concetto di storia).
In Benjamin vi sarebbe una contraddizione tra la critica allo storicismo ed il fatto che egli si accosti al materialismo storico, che a sua volta è una forma di storicismo, che peraltro è quella dominante al tempo. Egli quindi non solo si avvicina a ciò che critica, ma nel farlo si mette dalla parte dei dominanti e non degli oppressi, cosa che invece sarebbe lo scopo della sua critica allo storicismo. 
2) Sull’arte in Benjamin (a partire da L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica).
La divisione benjaminiana tra le caratteristiche dell’opera d’arte e le caratteristiche dell’opera riprodotta sarebbe semplicistica. Infatti, oggi vi è la possibilità di realizzare opere che presentano entrambe le caratteristiche, essendo tecnologicamente prodotte e però considerabili come opere d’arte.
I due punti qui sopra, a me suggeriscono le seguenti osservazioni.
1) Solo se si prende il suo avvicinamento al materialismo storico in un senso meramente letterale, convenzionale dell’espressione, può sembrare che ci sia la contraddizione di cui sopra. Ma non è in tal senso che Benjamin vi si avvicina, bensì rimanendo affascinato, non dal versante ideologico del materialismo storico – infatti, probabilmente la sua cognizione del concetto non era molto approfondita – ma dal fatto che esso rappresenti una rottura con il modo allora consolidato (“borghese”?) di fare storiografia. Insomma, non è tanto il contenuto nel dettaglio, quanto la funzione di rottura che lo affascina. Ecco perché non si può dire che egli ricada nello storicismo (vestito da materialismo storico), perché si avvicina al materialismo storico proprio nella misura in cui questo è una rottura dello storicismo. Ed ecco perché non si può neanche dire che egli si sieda dalla parte dei dominanti, perché si avvicina al materialismo storico in un momento in cui questo non è ancora il mainstream della storiografia (al netto del fatto che, anche se invece già lo fosse stato, si sarebbe dovuto vedere se il suo avvicinamento fosse stato un avvicinamento da pecora nel gregge, oppure mosso da motivazioni autonome). Forse, chissà, se fosse vissuto abbastanza da vedere il materialismo storico sviscerare il suo contenuto storicistico nel mentre diventava storiografia mainstream, se ne sarebbe infine allontanato (en passant, non c’è in tutto questo una certa somiglianza con il caso Heidegger-nazismo?).
Invece, quello che veramente conta nella sua critica allo storicismo, è che lui critica non la storia, ma un certo modo di fare storia, basato su informazioni, dati, fatti, anziché su significati ed evocazioni degli stessi – e sia chiaro che un’evocazione è una percezione concettuale ed emotiva del tutto, e non una rievocazione, di quelle che piacciono tanto ai politici, proprio in funzione storicistica. D’altra parte, ne Il narratore, non dice proprio che il modo del narratore, e della sua forma scritta, il romanziere, di costruire una tradizione, quindi una storia, è positivo poiché basato sull’apertura di significati, mentre il problema nasce quando entriamo nell’epoca della circolazione delle informazioni, notizie, che descrivono didascalicamente e quindi chiudono i significati, trasformandoli in una sequenza cronachistica di dati? E questo mero riportare informazioni, quando applicato alla storia, diventa storicismo. Molto similmente a quanto andava affermando Heidegger, differenziando tra Historie (aggiungo io) dei fatti e Geschichte (aggiungo io) dei significati, come nota la Arendt nell’Introduzione alla traduzione inglese di saggi benjaminiani, intitolata Illuminations.  
Mancare questo punto, significa non vedere che lo stesso storicismo da lui criticato è esattamente quello che oggi trionfa in tutte le università, in senso lato, occidentali. E questa cecità viene proprio dal fatto di essere orientati al versante delle informazioni filologiche, storiografiche, testuali, grammaticali, anziché a quello dei significati, che solo tradendo la letteralità di un testo appaiono; proprio come dice lo stesso Benjamin ne Il compito del traduttore, quando afferma che la fedeltà del traduttore non deve essere verso le parole ma verso il loro senso.
Si potrebbe così concludere, coniando nuove espressioni, dicendo che la critica di Benjamin è rivolta ad uno “storicismo informativo” al quale contrappone una “storia narrativa”.              
2) Benjamin non dice che dal momento in cui inizia la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, cessa la possibilità di creare arte. Evidentemente questa possibilità c’è ancora, sia per opere d’arte che non richiedono necessariamente hi-tech (ad es., quadri), sia, aggiungo io, per quelle moderne che lo richiedono (ad es., film). Il problema per lui non è una ipotetica fine dell’arte, poiché se prodotta tecnologicamente non sarebbe più tale, ma cosa accade quando un’opera d’arte prodotta senza ausili tecnologicamente avanzati, viene riprodotta tecnicamente. Infatti, fin dal titolo, non parla del problema della producibilità tecnica (che poteva essere uno herstellbarkeit) ma della riproducibilità (reproduzierbarkeit). Insomma, cosa succede quando un fenomeno viene riprodotto in un fenomeno di genere diverso (ad es., un concerto dal vivo in un cd o un quadro in un poster). Cosa che ha degli evidenti punti di contatto con la critica Francofortese dell’industria culturale.

Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale. Follow me on Academia.edu

Nessun commento:

Posta un commento